Era il giorno del mio settimo compleanno, il primo che festeggiavo fuori casa, la mia comoda casa di Borgotaro. Infatti, a causa dei frequenti bombardamenti aerei che avevano come bersaglio il ponte ferroviario, i miei genitori avevano deciso di trasferirsi in una piccola casa nei boschi di Frascara, lontana e nascosta dalla strada provinciale. Vi si arrivava da un sentiero sterrato che partendo dalla strada per Berceto s’inoltrava nel bosco.

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Era un giorno caldo e sereno. La notte precedente era piovuto e il bosco, lavato e splendente sotto il sole, sembrava nuovo di zecca. Vicino a noi, nella stessa casa, abitava un’altra famiglia sfollata come noi dal Borgo e così avevo anche un’amichetta di poco più grande di me: la Mirka. Aveva un fratello di circa dodici anni ed una cuginetta di appena sei mesi.
La Mirka ed io eravamo uscite presto per andare nel bosco a raccogliere radici di liguerizia, vicino alla fontana. Mentre eravamo chine, intente alla nostra raccolta,due grosse scarpe infangate si materializzarono accanto a noi: alzammo gli occhi e…
Quelle scarpe appartenevano ad un giovane che stava fermo davanti a noi, tutto sporco di sangue. .
Lo so, è strano che un giovane grande e grosso chieda aiuto a delle bambine, ma purtroppo nel tempo di guerra i ruoli non avevano più spazi ben definiti e spesso le parti s’invertivano intrecciandosi in situazioni a volte grottesche.
Conducemmo il giovane a casa nostra e mio padre lo fece spogliare dei suoi panni insanguinati e lo rivestì con i propri nascondendo tutto sotto le piane della cucina. Il giovane uscì rapidamente (la ferita che mio padre gli aveva medicato fortunatamente era leggera) ma prima disse qualcosa che io non capii. Ben presto il giovane sparì nel bosco. A noi bambine fu proibito di uscire e, in casa, tutti si affannarono ad ammonticchiare seggiole e tavoli contro l’uscio e le finestre furono immediatamente chiuse con gli scuretti come fosse notte.
Fatica inutile: di lì a poco tanti soldati tedeschi villani ed inferociti irruppero nella nostra cucina imprecando nella loro dura, incomprensibile lingua.
Ci fecero uscire in malo modo dopo aver fatto razzia di tutto ciò che di commestibile c’era in casa. La mamma, per festeggiarmi aveva fatto la crostata di ciliegie, c’era il pane bianco e un bel salame da affettare, il vino e i tortelli di erbette.
Alcuni soldati misero al muro gli uomini puntando i fucili per ucciderli e gli altri tedeschi s’inoltrarono nel bosco alla ricerca di altri ostaggi o forse del partigiano ferito.
Dopo interminabili momenti di terrore i tedeschi decisero di non fucilare gli uomini al muro (c’erano fra loro anche mio padre e il padre e lo zio della mia amica), ci incolonnarono tutti fra due ali di tedeschi con i mitra puntati verso la strada provinciale. Invece di farci camminare sul sentiero ci condussero lungo un ripido pendio fra le piante di ciliegi selvatici, cariche di frutti gialli e rossi, così dolci.
Intanto quei soldati che si erano addentrati nel bosco avevano ucciso due anziani uomini che non avevano avuto altra colpa se non quella di essersi trovati sul loro cammino, o forse volevano sapere del partigiano ferito?
In un orto vicino un uomo lavorava la terra in compagnia del suo cane. Lo apostrofarono in malo modo e lo minacciarono con il fucile. Il cane, per difenderlo, azzannò un tedesco. Questi, furibondo e dolorante, uccise l’uomo percuotendolo con il calcio del fucile.
Arrivammo, fra i soldati con i mitra puntati, alla strada provinciale. Ci misero in cerchio, in una radura al lato della strada dove oggi sorge una piccola Maestà, e dopo interminabili istanti di terrore, durante i quali i tedeschi ci puntarono addosso i loro fucili, come a voler fare una macabra gara di tiro al bersaglio, uccisero Jack, il povero cane reo di aver difeso il suo padrone.
Dopo questa atroce bravata ci fecero salire su una decina di autocarri allineati sulla strada ed iofortunatamente ero insieme a mamma e papà.
Non sapevamo dove ci avrebbero portato e se chiedevamo qualcosa loro fingevano di non capire la nostra lingua. Eravamo ostaggi, presi in uno dei più sanguinosi episodi di rastrellamento avvenuti nella nostra valle.
Avevo sette anni e già Pollicino, abbandonato nel bosco, Biancaneve con la sua cattiva matrigna mi sembrarono subito più fortunati di me, in quella terribile situazione.
Caricati tutti sui camion tedeschi, seduti sulle panchine laterali sotto la minaccia delle loro anni e il tiro delle mitragliatrici, avevamo l’ordine di alzarci in piedi e di far loro da scudo ogni qual volta fossimo stati intercettati da aerei nemici.
Non vi racconto del viaggio angoscioso, della battaglia sanguinosa che ne seguì. Tutto questo potete leggerlo nel libro La seconda Julia nella resistenza di Sergio Giliotti, perché tutto fa parte della storia, quella con la S maiuscola, quella che si legge nei libri di scuola; darò. invece qualche piccola notizia per chi leggerà questo racconto all’età che avevo io al momento della storia.
Quel giorno io indossavo un abito di pizzo bianco che la mia mamma aveva ricavato da una camicia della nonna; era molto bello e servì poi per fare la bandiera bianca all’automezzo che i partigiani requisirono ai tedeschi, con il quale ci riportarono a casa dopo la lunga e sanguinosa battaglia: eravamo tutti vicini, morti, feriti e salvi come fui io, mentre mia mamma e la mamma della Mirka furono gravemente ferite, il papà e la nonna della Mirka furono uccisi e il mio papà ferito. Noi bambini tutti salvi. lo, da quel giorno e dopo sessant’anni, non riesco più a vedere gli spettacoli pirotecnici: mi ricordano troppo i bagliori e i rumori di quel tragico giorno.
Tutti gli anni, da allora, il 30 giugno torno su quella strada che ho visto coperta di morti, risento l’odore della polvere e del sangue e penso ai bambini che allora furono privati dei loro sogni non solo, ma soprattutto dei loro cari e che ben difficilmente nelle pompose orazioni rievocative vengono ricordati. .
Anche se non hanno perso la vita ci si rende conto di quanto grandi e profonde siano state le ferite che hanno dovuto portare nel cuore?

Patrizia Tagliavini