Alla foce del Tarodine

Erano gli ultimi anni’70, frequentavo le medie ed ero appassionatissimo di natura, come la maggior parte dei bambini di quella età. Uscivo da una infanzia di fattorie e zoo giocattolo, di libri ed enciclopedie della natura, di raccolte di figurine degli animali, di vacanze estive nei parchi nazionali, alla ricerca di chimerici stambecchi che al massimo erano puntini su un costone roccioso, osservati con vecchio binocolo residuo di guerra. Un mondo in cui avrebbero dovuto esserci tanti animali, ma erano sempre lontani, evanescenti, immaginati e mai visti.

Poi una di quelle sere di prima estate, quando il sole si scordava di tramontare, mio padre mi disse di prendere la bicicletta che andavamo a vedere lepri e fagiani. Lui li aveva scoperti dal treno, nelle sue albe di pendolare, osservandole dall’alto come un rapace quando il treno attraversava sul ponte di ferro gli incolti e i gerbidi alla foce del Tarodine.

Lasciammo l’asfalto in corrispondenza della cappelletta di fronte al cavalcavia della stazione, insinuandoci in una stretta carraia sterrata che poco dopo svoltava a sinistra, passando di fronte ad una casetta bassa con un enorme rosmarino che faceva ombra alla porta d’ingresso. Ancora una svolta, a destra, e la strada correva tra due sieponi fittissimi di biancospini, nespole e ligustri.

In fondo sbucava in un enorme prato, e con mia sorpresa massima c’era una lepre, una enorme lepre acquattata nell’erba appena sfalciata. E fagiani, maschi colorati con il corteggio di femmine marroni al seguito.

Ero in visibilio.

Da quella sera, ci sono tornato tante volte, in effetti quasi ogni giorno, per molti anni. Nei pomeriggi gelidi dopo la scuola, al chiarore azzurro di precocissime albe estive, in fradice mattine autunnali di pioggia e fango e foglie marce.

Pensandolo oggi con la mente di adulto, non era certo un “bel” posto. Discariche a cielo aperto, distese di rottami, buche di bombe alleate, e dopo pochissimi mesi dalla mia prima visita, anche un quartiere artigianale in crescita che anno dopo anno erodeva lo spazio alla natura. Ma per me era un luogo magico come la Terra di Mezzo di Tolkien. Un territorio fatto di piccoli stagni maleodoranti che sembravano ai miei occhi le paludi pontine pre-bonifica, dove ogni anno tornavano puntuali, ai primi freddi, una decina di beccaccini, dove nelle notti di primavera cantava l’usignolo, dove in settembre si concentravano a dormire, a centinaia, posate sulle mazzesorde, le rondini di tutta la valle.

Il fiume, prima dell’alluvione dell’82, scorreva stretto tra due ali di bosco, salici-pioppi-ontani, le cui fronde si sfioravano al di sopra del corso d’acqua. Il greto era perennemente in ombra, i sassi coperti di muschio; il merlo acquaiolo costruiva il nido su vecchi tronchi contorti ed il martin pescatore cacciava pesciolini nei fondoni più calmi.

La primavera era la stagione delle sorprese, dopo pranzo impaziente impugnavo il binocolo non sapendo mai cosa potevo incontrare, un giorno sorprendevo il falco pescatore, il giorno dopo l’airone rosso, un’altra volta il mestolone, tutti in sosta per riposarsi del grande balzo tra Africa ed Europa.

Alle spalle della striscia di bosco, invece, sul letto di ghiaie deposto dal Tarodine alla fine della sua corsa tra i monti, si sviluppava la gariga di elicrisi e artemisia, che ai primi caldi profumava acre, punteggiata di gialle ginestre di Spagna. Da maggio a luglio si colorava di centinaia di orchidee, Orchis morio, Orchis tridentata, Ophrys bertoloni, Ophrys fuciflora e tante altre.

Ho imparato ad amare la natura, ad amare il brivido della scoperta di una nuova specie, ad amare la soddisfazione per una bella foto di animale o di fiore, ad amare il nostro Taro e la nostra valle.

Oggi di quel posto non restano che poche foto sbiadite, essendo sparito sotto le esondazioni di due alluvioni, sotto un quartiere artigianale e sotto una fabbrica fuori scala.

Ma qualcosa sopravvive, stretto tra il fiume e le difese d’argine, nascosto sotto i pioppi ed i salici che impavidi ricrescono veloci dopo che le piene o le ruspe li travolgono.

Passate sotto il ponte del Tarodine della “superstrada” e costeggiate il Taro passando sotto il ponte di ferro: non è che un pallido ricordo dei tempi che furono, ma l’usignolo ci canta ancora, i barbi a frotte scandagliano il fondo fangoso tra i sassi, qualche sparuto culmo d’orchidea ancora fa capolino tra l’erba di maggio. In attesa del giorno in cui si riprenderanno tutto…

 

Guido Sardella

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