Lo stagnaro

Desidero che nei “ Ricordi” del Giornale di San Rocco ci sia questo racconto d’adolescente, dedicato a mio padre che mi insegnò come l’onestà non paghi ma faccia dormire sonni tranquilli. Silvano Ottonari

Un mestiere forse dimenticato, un’amicizia mai scomparsa dal cuore

Era un giorno d’inizio estate del 1951. Qualcuno bussò alla porta di casa mia e la nonna mi chiese di vedere chi fosse. Aprii la porta e mi trovai di fronte un uomo con un ragazzo, più o meno della mia stessa età che teneva con una mano due paioli in rame e nell’ altra una teglia.
Chiamai mia nonna e l’uomo si presentò come stagnaro e chiese se avessimo qualche pentola, paiolo o teglia da far riparare. Io continuavo a fissare il ragazzo al suo fianco mentre la nonna prendeva il paiolo che doveva essere riparato : il troppo uso aveva provocato un buco nel fondo del paiolo. Arnese immancabile in ogni famiglia. Almeno una volta alla settimana era utilizzato per preparare la polenta.
L’uomo disse che avrebbe riconsegnato il paiolo riparato il giorno dopo e che il lavoro lo avrebbe eseguito sul piazzale della stazione ferroviaria.
La piazza della stazione ferroviaria di Borgotaro era molto differente all’inizio degli anni 50 da come è ora. La stessa era più stretta di una decina di metri ed il perimetro era caratterizzato da alberi di gaggia sfrondati come i salici. Il tronco era alto 3/4metri ed il diametro era di almeno 2 metri. Questi alberi furono piantati alla fine dei lavori di scavo della galleria del Borgallo e della relativa costruzione della stazione ferroviaria. C’era una scarpata, il muro venne costruito nel bienno 1955/1956, che d’inverno serviva a noi ragazzi per sciare con la slitta o formando una pista ghiacciata per poi sciare con le scarpe.
Nei giorni seguenti cominciai ad avvicinarmi, per curiosità, al luogo di lavoro dello stagnaro. Gli attrezzi che utilizzava per il lavoro erano dei più semplici: un buco scavato per terra vicino ad una delle gaggie, un mantice a manovella, carbonella per il fuoco, una matassa di stoppa, acido muriatico, stagno, martello, chiodi in rame e fogli di rame.
Accendeva il fuoco, lo ravvivava con il mantice, poneva il paiolo o la teglia sul fuoco per far sciogliere lo stagno vecchio e lo toglieva a mano con la stoppa, rattoppava il buco, riscaldava poi il paiolo o la teglia, faceva sciogliere lo stagno dentro il paiolo o la teglia e con la stoppa, con movimenti circolari della mano ricopriva il rame. La teglia e il paiolo ritornavano come nuovi.
Ero affascinato dalla maestria dei movimenti dell’uomo, movimenti acquisiti in anni di esperienza: semplici (in apparenza )e precisi. L’uomo non parlava molto; dava ordini al ragazzo che era con lui con frasi secche accompagnatie da gesti affettuosi. Capivo che l’uomo amava il ragazzo.
Non so come, ma quell’età tutto è più facile, con il ragazzo diventammo amici e più il tempo passava più l’amicizia era profonda, salda. Ci dicemmo i nostri nomi. Il suo era Stefano ed era il figlio dello stagnaro. Aveva due sorelle che erano in collegio. Era molto alto rispetto all’età che aveva. Venivano dalla provincia di Lucca e giravano per il nord Italia, Toscana ed Emilia in particolare, a cercar paioli e teglie da riparare.
Ogni momento libero che aveva dal lavoro lo passavamo insieme. Il padre borbottava ma lasciava correre. Io non avevo problemi: la scuola era finita in Giugno e il tempo non mi mancava.
Era orfano di madre, sentiva la mancanza della madre com’io sentivo quella di mio padre. Per novi mesi all’anno era lontano per lavoro. Forse per questo trovammo così tante affinità.
Man mano che i giorni passavano, la ricerca del lavoro diventava difficoltosa. Stefano doveva andare sempe più lontano e tornava il pomeriggio inoltrato carico di paioli e teglie che riportava riparate nei giorni seguenti ai proprietari. Dio, quanto era faticoso vivere in quel periodo!
Il profondo senso dell’ospitalità che caratterizzava le genti della valle, non ha fatto mai mancare un piatto di minestra ed un pane per Stefano e suo padre.
La sera andavano a dormire in una stalla del podere La Pieve, un kilometro circa, dal posto di lavoro , e per letto uno strato di paglia.
Succedeva che il padre di Sefano ogni tanto si ubriacasse e per lui era un problema portare il padre a dormire cosi lontano. Non ha mai chiesto aiuto per ciò. Era orgoglioso e fiero, una fierezza velata di malinconia e mai l’ho sentito dire parole che non fossero di sprone e d’aiuto al padre.
Venne il tempo della partenza. Con Stefano ci demmo appuntamento per l’anno successivo e lo accompagnai al treno.
Tornò con suo padre per un paio d’anni ancora e sempre grande era la gioia del rinnovato incontro. L’amicizia non venne a mancare, ma in come tutte le cose c’è una fine. Un anno, prima di partire, Stefano mi disse che quella era l’ultima volta perchè non c’era più lavoro per loro e che forse non ci saremo pìù visti. Giurammo che non ci saremo dimenticati l’uno dell’altro.
Partirono ed io piansi come non mai e a nulla servirono le parole di consolazione di mia madre.
Non ci siamo più rivisti e chissà quale strada avrà intrapreso. A volte penso e spero di poterlo rivedere perché ad oltre 50 anni di distanza, il ricordo dell’amicizia con e di Stefano è molto vivo e, racchiuso nel mio cuore, lo custodisco come il bene più prezioso.