L’occasione di questo giornale, sveglia in me il desiderio di  raccontare quella che è stata la mia esperienza di vita nel quartiere di S. Rocco ed in questo modo rivivo i tanti momenti quotidiani trascorsi nella casa dei miei zii Aldo e Gina Tagliavini. Come ho già avuto modo di scrivere, insieme a loro e alle mie cugine, Patrizia e Lucia mi sono sentita veramente parte di questa Comunità. Nella mia mente si sono fissate forme, colori e sentimenti di quell’epoca , quando la vita non aveva il tumulto di oggi e tutto accadeva sotto il giusto sole così come erano regolari le stagioni. Ecco quindi uno stralcio del mio diario interiore anche se un po’ sfocato a causa  dei tanti  anni ormai passati da allora …

DITTA C. TAGLIAVINI di ALDO TAGLIAVINI  

Era l’anno 1955.
Si entrava dal cancellone, che ancora esiste, su Via della Libertà di fronte a casa Necchi e subito apparivano grandi tubi di cemento, talmente grandi che noi bambini ne facevamo addirittura rifugi o nascondigli per i nostri giochi. Intorno, mucchi di sabbia fine e più grossa fino ad arrivare ai sassolini. Percorrendo la stradina o vialetto o che dir si voglia, ombreggiato dal lato della Via suddetta, da alti alberi detti “del Paradiso” che emanavano un “profumo” poco accattivante, ma che qualificavano il momento delle vacanze estive,  si arrivava a contatto con la vera realtà dell’Azienda: sulla destra la casa padronale che ospitava anche l’ufficio, di fronte i capannoni per la lavorazione del marmo e suoi derivati e la “baracca”…che non era altro che un deposito di materiali che aveva un fascino particolare  perché in tutto somigliante ad una casa in miniatura, bassa ad un unico piano, con porte e finestre e il pavimento interno piastrellato. Meta dei giochi più femminili e domestici che non quelli  dei tubi perché qui si portavano le bambole, i tegamini e quant’ altro fosse del quotidiano. Quattro parti di terreno, antistante, formavano le aiuole rettangolari  dove c’erano cespugli di rose bianche e alberi da frutta e, tutto questo potenziava la mia fantasia di ragazzina. Ricordo anche come ci fossero tanti alberi di ciliegie, preda ambita di tanti ragazzi del quartiere che non aspettavano nemmeno la notte per farne man bassa. Andando con la mente a quei giorni escono alcune figure caratteristiche di coloro che lavoravano per mio zio: già entrando dal cancello e andando verso i fabbricati atti al lavoro dell’azienda, si era accolti dal rumore delle macchine per lavorare il marmo, ma su tutto il possibile rumore sovrastava una voce forte: era Tamagna che cantava in continuazione a squarciagola all’unisono con la levigatrice che manovrava e questa sembrava darsi la voce con gli altri macchinari dai “suoni” particolari come quello stridente che veniva dal taglio del marmo. Con lui, anche se ora non so bene mettere a fuoco le loro prerogative e i loro visi c’erano Mario Ruggeri, Nino D’Ambros,Valerio Brugnoli, Giovanni Spagnoli, Levanti e Giovannone soprannominato “polenta e fichi” poi Silvano Ottonari, quasi un ragazzo, con gli occhi blu ed infine “Corea” cioè Luciano Ruggeri.  Forse qualcun altro che non so ora ricordare. I capannoni che li accoglievano erano polverosi e gli operai lo stesso, giovani o vecchi che fossero avevano tutti lo stesso colore, compresa la Fidalma, dall’aria energica, ma col sorriso dolce e triste; con le altre donne, Pasqualina, Anna Piscina, Lisetta Pattonieri, Rosetta Pescatori, Luisa Delnevo e forse chissà chi, era addetta alle presse delle  mattonelle di graniglia che mi affascinavano perché simili a dei mosaici astratti dai colori spesso madreperlacei. Poi c’era Renato Benci, uno dei più anziani e Gigino “Cavanino” che in realtà, di cognome si chiamava Previ ed abitava con la moglie Rina, nelle casette basse a lato del cortile della fabbrica. Con il passo cadenzato e lento, percorreva il breve tratto dal posto di lavoro alla sua abitazione, con l’aria di non arrivarci mai più, dove sulla porta l’aspettava la moglie che, come figura, se pur di proporzioni un po’ più robuste, mi ricordava molto l’Olivia di Braccio di ferro. Nelle stesse casette, abitavano anche i Barusi: Ugo e la Rina sua moglie, piccoletta e rotonda, con i figli, Adele che è andata poi sposa al “ Fornaretto” e Mario diventato ingegnere.Un mondo chiuso in un cortile, circoscritto tra il Tarodine e Via della Libertà, custodito dalla forma un po’piramidale del monte Cavanna e col tempo scandito dal rumore del treno che passava sul ponte di ferro e  dalla sirena a mezzogiorno e a fine lavoro la sera, del cementificio della ditta Milanese & Azzi. Al suo suono lacerante faceva eco immancabilmente, cercando di imitarla, il cagnetto maltese di casa, Baby. In certe sere d’estate però, il cortile si animava perchè gli zii organizzavano una festa per i loro operai forse per il buon fine di un particolare ed importante lavoro: grandi piatti di salumi e bevande e poi… naturalmente la musica dove il canto di Tamagna spiccava. Noi ragazzine ci lustravamo lavandoci gambe e braccia impolverate, nella vasca di cemento vicino all’ingresso di casa, con l’ansia di affrontare nel migliore dei modi, la lunga serata.
Ma dalla fabbrica degli zii non uscivano solamente mattonelle o soglie di marmo, perché lo zio Aldo era un artista, e in una parte di un capannone c’era una vasca in cui veniva conservata della creta che gli serviva anche per modellare e creare forme: quante di queste ancora possono essere viste nei giardini di Borgotaro e dintorni! Dai tavolini e i sedili a forma di  fungo  al putto sulla tartaruga per le fontane, alle pigne che venivano messe a capo delle balaustrate o sui pilastri dei cancelli,  nonché particolari monumenti funerari.
Mio zio Aldo era coadiuvato nell’Impresa dalla zia Gina, sua moglie e  sorella di mia mamma; tutti e due di provenienza colornese non si erano lasciati intaccare dall’idioma locale al punto che il loro parlare italiano o le rare frasi in dialetto avevano l’accento della bassa come se mai si fossero staccati dal paese di origine. Mia zia conduceva l’ufficio e lo zio era impegnato nella parte più pratica e materiale nel vero senso della parola, ma secondo me con una certa sofferenza perché essendo nato artista forse avrebbe desiderato usare in altro modo il proprio talento.  Questo l’ho colto in lui già dai primi tempi della mia permanenza nella sua casa, perché anch’io avevo la su stessa  facilità nel fermare le forme della vita attraverso il disegno e ciò che per lui però si traduceva in scultura per me era in pittura. Ero piccola eppure lui mi considerava, in un certo senso si sentiva vicino al mio essere e quando c’era qualcosa da condividere mi chiamava dicendo una frase che non so dimenticare: “vieni che noi siamo dell’arte” . Correvo curiosa e una volta era un segno, un’altra volta una forma, ma spesso un progetto di una casa che gli era stato commissionato, abbozzato sulla carta. Lo zio Aldo era un artista, come si usa dire oggi “ a trecentosessanta gradi”. Disegno, scultura e architettura per lui non avevano segreti. Dallo schizzo sulla carta in poi entravo in ballo io con sommo gusto e piacere perché fresca di nozioni scolastiche non avevo alcuna difficoltà a far correre squadra, riga e tiralinee con l’inchiostro di china. Mi sentivo bene in questi momenti, appagata al punto che un certo giorno mi sono sentita autorizzata a dare ulteriore vita alle sue sculture in marmo bianco di Carrara dipingendo ad acquerello occhi azzurri e bocche rosse a due figure femminili. Quel giorno gli occhi  azzurri dello zio sono diventati neri! Nonostante le sue mani indurite dal lavoro sapeva abbozzare in modo veloce e sicuro: vedeva le forme ancor prima di fermarle sulla carta con vera genialità. La sua Azienda ha dato lavoro a tante persone accolte con cordialità e con rapporti di stima reciproci. La C puntata che sta nell’intestazione della Ditta Tagliavini è l’iniziale del nome del padre di mio zio, Casimiro che appunto aveva iniziato l’attività che so protratta fino agli ultimi tempi degli anni ’90.
Questo è, a grandi linee, ciò che maggiormente ricordo della vita di ciò che accadeva e che maggiormente mi è rimasto impresso nel contesto dell’attività lavorativa della DITTA  C. TAGLIAVINI di ALDO TAGLIAVINI dove stavo soprattutto in estate durante le vacanze scolastiche, ricordo forse condizionato in senso emozionale, perciò visto con un’ottica particolare. Certamente però, qualcuno, potrà arrivare a completare la mia visione e a comporre con più sicurezza il senso di quel tipo di lavoro, in quei giorni, di mezzo secolo fa.

                                                               di Luisella Bosi