Una volta c’era….

Silvano Ottonari continua la sua serie di ricordi in questo articolo come sempre interessante e piacevole che riporta alla memoria di molti sanrocchini i luoghi dell’ adolescenza.

Fino a non molti anni fa, c’era un terrapieno alla destra del torrente Tarodine che, iniziava nelle vicinanze del palazzo Cucchi, e terminava nella brughiera del fiume Taro. Il terrapieno, frutto degli scarti del traforo della galleria ferroviaria del Borgallo, era lungo circa 500 metri . Ad un terzo circa della lunghezza , degradava sino a formare una V per poi risalire e la parte più a sud, cioè verso il fiume Taro, aveva la sommità pianeggiante. La larghezza del pianoro variava da poco più di un metro all’inizio sino a circa 20 metri nella parte più larga.
Crescevano rovi, rose canine, cespugli vari e la parte destra del terrapieno, verso il ponte della ferrovia, era coltivata normalmente ad erba medica o trifoglio. Qualche volta veniva seminato anche il grando ma il raccolto era scarso a causa del terreno non propriamente adatto a quella coltura. C’erano anche delle piante rampicanti che dalla sommità del terrapieno, scendevano a sfiorare l’acqua del torrente e che noi ragazzi utilizzavamo per far scalate (più di uno finì in acqua, fortunatamente, senza farsi del male).
Quasi al bordo del terrapieno verso il torrente Tarodine, c’era una piccola trincea a forma di L che era stata scavata dai partigiani durante l’assalto al comando tedesco accquartierato nel palazzo Ostacchini, che noi i utilizzavamo per i giochi di guerra.
Tutto questo era per noi ragazzi un ben di Dio per i nostri giochi: scalatori di montagne, soldati alla guerra, spadaccini, guardie e ladri, arcieri, indiani e cowboys…
Le armi erano fatte da noi: fionde semplici o doppie, archi, con stecche di ombrello come frecce , fucili con pezzi di legno sagomati in qualche maniera a cui veniva inchiodato una molletta per stendere i panni come grilletto e con un elastico fissato in cima alla “canna”. Sparavamo pezzi di carta masticata e macerata con la saliva. Mancavamo di molte cose ma non di fantasia ,anzi, di quella ne avevamo in abbondanza!
Nessuno di noi aveva letto “I Tre Moschettieri” di Dumas padre nè “i Ragazzi della via Pal” di Molnar, libri che alcuni di noi, avrebbero letto più grandicelli. L’unico libro che si leggeva, era il libro Cuore di De Amicis, a scuola, perchè a casa o non nè avevamo o non si aveva tempo per leggerli.
Il gioco che andava per la maggiore era l’assalto con la spada (in verità era un fioretto ma noi non facevamo distinzione tra spada, sciabola e fioretto , per noi era “la spada”). La facevamo con un arbusto che si chiama “sanguinéla” (credo si scriva cosi; se cosi non è mi perdonino i puristi del dialetto) che cresceva abbondante in tutta la brughiera del fiume Taro. Si tirava a sorte e chi vinceva sceglieva i suoi spadaccini. Fatte le squadre, si sceglieva un avversario e poi giù a menar fendenti . C’era tuttavia un grosso problema: le nostre “spade” non avevano l’elsa per cui alla fine dei combattimenti, più di una mano era nera dai lividi e succedeva che per alcuni giorni non si potesse più “combattere” a causa del persistente dolore. A casa erano rimbrotti a non finire ma nonostante questo inconveniente, non si desisteva nel giuoco. Col tempo imparammo a costruire un’elsa di latta (utilizzavamo la latta delle scatole di conserva opportunamente sagomata) e le cose dal punto di vista lividi, migliorarono notevolmente.
Un giorno venne proiettato al cinema Farnese il film I Tre Moschettieri. Qualcuno lo vide, lo raccontò ad uno di noi, il quale a sua volta raccontò la trama a tutta la banda con aggiunte varie, come di solito succede, (qualcuno direbbe: come fanno i pescatori) e ahi noi, sorsero discussioni a non finire chi doveva essere D’Artagnan, il nome più ambito e il personaggio che ognuno voleva essere, anche se Aramis, Porthos e Athos erano altrettanto importanti, ma nessuno li voleva: tutti a discutere e litigare per scegliere chi doveva essere D’Artagnan. A me non capitò mai perché essendo il più piccolo della banda, di conseguenza ero quello che pagava pegno. (Quando lessi “I Ragazzi della Via Pal”, ricordando i giochi che facevo sul terrapieno , mi sentii un poco Nemeck quasi a riscatto di quella negazione).
Ora, al posto del terrapieno e della brughiera, c’è una lunga fila di capannoni industriali. Non ci sono più lepri nè lucciole che nelle sere d’estate illuminavano la valle, nè canto dei grilli e allodole che s’alzavano in volo verticale dai prati d’erba. Questo mi riporta alla celebre frase di H. Bogart, nel film ”L’Ultima Minaccia”, prima di schiacciare il pulsante che dà avvio alle rotative: ”E’ Il progresso bellezza”! . Già, bellissima parola e quanti vantaggi ci ha portato, ma il conto che si è dovuto pagare é stato molto alto.
Ogni volta che sono passato da quelle parti, il terrapieno era lì, con tutti i ricordi intatti del tempo dei giochi dell’adolescenza.

Silvano Ottonari