Sfilata alpini

Un piccolo contributo alla festa degli Alpini.  Sono ricordi di un tempo
ormai lontano, quando i tigli di Viale della Liberazione non erano ancora
alberi ma piccole piante messe a dimora da noi scolari a partire dal 1948. 
Il buffet della stazione, la trattoria Cucchi,  l’osteria di fronte al
palazzo Tagliavini o quella di fianco alla chiesa di San Rocco, era luoghi
dove, nelle sere d’estate, si trovavano un po’ tutti per passare qualche ora
e raccontare storie di tutti i tipi e poi finivano per cantare dopo qualche
fiasco di vino. 

Due, tre volte l’anno, percorro l’autostrada Venezia-Udine-Tarvisio per passare un poco di tempo con mio figlio e mio nipote. Dopo Udine, si entra nella Carnia, si costegggia per un buon tratto il fiume Tagliamento e si incontrano cartelli stradali con nomi di paesi che mi ricordano il tempo della mia adolescenza: Cividale del Friuli, Osoppo, Gemona, Tolmezzo, Cormons. Luoghi fascinosi della giovinezza, lontani, raccontati da chi militare, tornava per una licenza o per congedo militare.
In quel tempo la maggior parte dell’Esercito Italiano era schierato sull’arco alpino orientale, dove gli strateghi militari, pensavano che una possibile invasione dell’Italia (si era nel pieno periodo della guerra fredda e da poco era stata istutuita l’Alleanza Atlantica o NATO) avrebbe avuto come porta di entrata Trieste e il Carso più a nord.
Erano fine anni 40, inizi anni 50: i ragazzi di leva erano mandati quasi tutti nelle divisioni alpine Tridentina e Julia. I loro racconti iniziavano dall’arrivo al C.A.R. (Centro Addestramento Reclute) all’arrivo nei vari reggimenti alpini. Erano viaggi in ferrovia di alcuni giorni, con vari cambi per arrivare a destinazione, viaggi fatti in tradotte o treni di terza classe. La ferma era di 18 mesi, mesi lunghi da passare. I primi tempi al reggimento erano duri e l’adattamento alla nuova situazione non facile. I “nonni” (i militari con più anzianità) obbligavano le reclute a riti di iniziazione crudeli, a volte al limite della sopportazione umana. Se si superava il rito, si era Alpini e si era ammessi a pieno titolo nella compagnia.
Erano racconti di sere d’estate, nelle osterie e nei bar del quartiere San Rocco, che noi ragazzi d’una decina d’anni o poco più, ascoltavamo in silenzio quasi religioso: le lunghe marce nella neve con zaino e fucile a tracolla; l’artigliere con il mulo a seguito e sul basto il mortaio che, al ritorno dalla marcia, doveva avere cura del mulo più della sua stessa vita.
Parlavano della “deca”, la paga che ogni militare riceveva ogni 10 giorni, poche centinaia di lire, sempre decurtata per riparazioni della caserma per danni, veri o fittizi, causati dai militari; delle sigarette che passava l’Esercito e dei vaglia che la famiglia inviava loro (poco o tanto che fossero, erano attesi come manna dal cielo). Degli scherzi tra commilitoni, il gavettone, il dentrifricio o il lucido da scarpe nel letto. Di chi, non spendeva un centesimo ed inviava la “deca” a casa perché la famiglia era più povera dei poveri. I tanti analfabeti, che si facevano leggere le lettere spedita loro della morosa o della famiglia e scritta quasi sempre dal parroco del paese; della difficoltà di fare conoscenze femminili, i militari superavano di gran numero la popolazione locale. Raccontavano delle canzoni alpine che già sapevano o che dovevano imparare. Ogni occasione era buona per parlare della loro esperienza militare e tra un calice di vino e l’altro, iniziavano a cantare. Canzoni struggenti (ho visto molti Alpini piangere), una su tutte: Il Ponte di Perati. E noi ragazzini, ad ascoltare rapiti dalle loro gesta in pace e in guerra.
I racconti dei “veci”, di chi aveva fatto la guerra in Yugoslavia, Grecia, Albania e poi in Russia, dei sacrifici immani e gesta eroiche durante la ritirata dalla anse del fiume Don sino a Nikolayevska; dei molti, che dopo l’8 setembre 1943 formarono gruppi partigiani per combattere i nazi-fascisti.
Alpini, un nome, una Leggenda che si tramanda di generazione in generazione, non avrà mai fine.
Grazie. Ciao Silvano